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lunedì 11 giugno 2012

La bellezza salverà il mondo (Springsteen, San Siro 7-6-12, come la musica può guarire l'anima collettiva)


La bellezza salverà il mondo affermava Dostoevskij. Niente di più vero. Laddove tutto sembra inesorabilmente fallire (potere politico, economia, banche, ideologie), c’è davvero una forza che non può essere arrestata ed è costantemente in grado di mostrarci quanto di buono il nostro esistere contenga: è il potere contenuto nella bellezza, nella gentilezza, nell’amore e nella contemplazione della magnificenza di cui ognuno di noi, nel suo piccolo, è parte attiva.
Giungo a queste conclusioni dopo aver inconsapevolmente concesso, ad un uomo di 62 anni suonati, la possibilità di salvarmi la speranza ed il sorriso. Questo arzillo “benefattore” risponde al nome di Bruce Springsteen: rockstar planetaria ed icona della musica popolare statunitense, nonché personalità che non ha bisogno di presentazioni, dato che da ben 4 decenni è detentore del celebre soprannome “The Boss” (il capo). Un nomignolo guadagnatosi dopo aver sprigionato ettolitri di sudore e milioni di Watt energetici nella lunga gavetta che ha preceduto la sua consacrazione, ma appunto un “nickname” e come tale, per lui una semplice etichetta a cui, lontano dai riflettori, pare non dare assolutamente né peso né importanza.
Le mani che scrivono queste considerazioni sono due fra le oltre 180 mila che Giovedì 7 Giugno 2012, dalle ore 20.37 in poi, hanno vissuto (utilizzare il termine “assistere” o “essere spettatore” per un concerto di Springsteen è assolutamente improprio) ad un autentico miracolo dai connotati catartici e collettivamente redentori.
Ho aspettato appositamente che trascorressero alcune ore, prima di mettermi alla tastiera e cercare di plasmare le parole più adatte a descrivere questa serata. L’attesa era necessaria per svariati motivi: cercare innanzitutto di lasciare che l’adrenalina in circolo nella mie vene lentamente evaporasse e facesse posto ad una mente più lucida ed obbiettiva. Ma soprattutto distaccarmi sufficientemente, allo scopo d’avere una visuale completa della vetta e rendermi quindi conto della natura e delle proporzioni dell’evento da cui sono stato letteralmente investito.
Una volta svolta questa non facile operazione la domanda che più frequentemente mi ha invaso le meningi è stata: << Ed ora come faccio a trovare i vocaboli adatti a contenere così tanta grandezza e luce senza inciampare in una retorica tacciabile di fanatismo? >>
Gli orientali descrivono il Nirvana come: “ uno stato di beatitudine non descrivibile, solo sperimentabile”. Tornando invece in occidente lo stesso Springsteen ed altri noti musicisti espressero anni orsono concetti più io meno rissumibili in frasi del tipo: << Parlare di musica e della sua misticità è come tentare invano di descrivere il sapore della pasta a chi non l’ha mai mangiata o cercare di dare una definizione d’amore…molto meglio imparare queste cose vivendole attraverso dimostrazioni pratiche, no? >>.
Ecco! Ci siamo! Ho risolto il primo problema: non sono un giornalista e quindi al diavolo lo sforzo d’essere pateticamente asettico, che traspaia pure il fatto che in quelle 3 ore e 47 minuti mi sia sciolto in un impasto di emozioni e grida!
Resta comunque la seconda problematica: esistono sentimenti e sensazioni così nobili da non potere essere compresse né ridotte a vuote spiegazioni, del resto mi consolo rileggendo un famoso adagio che recita: << Si dice che il mondo sia diviso tra chi adora il Boss e chi ancora non l’ha visto dal vivo >>, per cui mi rassereno e piacevolmente mi arrendo…scrivo queste righe con l’unico scopo di ricordare a me stesso quanto una serata ed i suoi singoli frammentati “istante per istante” possono essere preziosi per rimembrarci e rilanciare il valore inestimabile della vita.
I biglietti dello show (prontamente acquistati nello scorso Dicembre) sono rimasti in una vetrina della mia sala, osservandomi quotidianamente per 7 lunghi mesi, prima di finire nelle tasca del mio zaino, per l’occasione degno d’una puntata di “turisti per caso”.
Alle ore 16 ho già superato Settimo Milanese e parcheggiato la mia auto al parco Trenno. Giro le chiavi nel cruscotto e spengo motore ed autoradio (nella quale ovviamente girava un cd di Bruce), ci attenderà una lunga passeggiata verso lo stadio di San Siro. Fa caldo nonostante i nuvoloni plumbei che lassù sembrano minacciare di voler guastare la festa al popolo Springsteeniano.
Si fa conoscenza di altri ragazzi “in marcia”, è l’occasione buona anche per addentare un paio di panini ben farciti…dopo due morsi li ridepongo: niente da fare ho lo stomaco chiuso come una gabbia dal catenaccio dall’emozione. Non è il primo concerto del Boss, ma ogni volta è come se lo fosse e il tremore si ripete uguale e nel contempo diverso.
Due foto di rito davanti all’ingresso 14 e si entra. Rapida perquisizione, svito la bottiglia e le do un colpo di frusta col collo svuotandone i liquidi quasi per intero dentro al mio corpo.
I tornelli sono inagibili, si sale gradino per gradino in quella che ha tutte le sembianze di una processione infinita verso il secondo anello blu.
Inizia un’attesa snervante, in un paio d’ore prato e spalti sono stipati sino all’ultimo posto disponibile. Ore 20,30: il colpo d’occhio ti stronca il fiato! Lo stadio sembra una polveriera pronta ad esplodere al primo sussulto, parte una ola degna della finale dei mondiali. Le gradinate vibrano appoggiandosi al costante “ohhhhhh” che accompagna vocalmente la spasmodica attesa della E Street Band e del suo leggendario sciamano.
Sulle note di “C’era una volta il West” uno alla volta entrano i 17 “Blood Brothers” accolti dall’unica scossa tellurica di cui ogni uomo vorrebbe esser parte. Ci sono quasi tutti: Gary, Max, Soozie, Nils, Roy, Charlie, Cindy, Jake, ecc…ho specificato con dolore quasi tutti perché ne mancano due: Danny “The Phantom” Federici (il tastierista tragicamente scomparso nel 2008, consumato da un melanoma) e l’indimenticato “totem umano” dalla pelle color ebano, Clarence “Big Man” Clemons (sassofonista e amico fraterno del Boss, deceduto a causa d’un ictus lo scorso Giugno). Sul palco due luci illuminano due spazi vuoti a simboleggiare due perdite umane inestimabili, due cicatrici sanguinanti ancora aperte nell’epidermide morale di tutti i presenti. Addirittura un quintetto di fiati (tra cui anche il 22 enne Jake Clemons, nipote di Clarence) ha la pensante eredità di non far sentire, per quanto possibile, la sua assenza. Un fragore inaudito accompagna e precede il carisma del chitarrista “Little Steven”, ma è solo il preludio all’apoteosi che va in scena all’ingresso di Bruce, con la mano destra brandisce la storica Fender Telecaster, quasi fosse un’arma in grado di sparare amore: << Ciao Milano! Siete pronti? Siete Pronti? Siete Pronti? >>. Quella domanda, ringhiata nel microfono con la grinta d’un domatore di folle, squarcia il cielo in due, quasi a voler spazzar via le nubi fisiche e reali e quelle metaforiche che ingrigiscono il futuro. Ha inizio il delirio, la gente non guarda il concerto, la gente fa il concerto in un unione simbiotica con lui ed ogni altro membro, in un tutt’uno alchemico e cosmico. Ci sono almeno tre generazioni presenti in una staffetta senza tempo. Max alla batteria pesta come un dannato e le chitarre ruggiscono l’intro di “We take care of or own” ( << Ho bussato alla porta dietro a cui sta il trono\Ho cercato la mappa che mi conduca a casa\Ho inciampato su cuori buoni diventati di pietra\La strada delle buone intenzioni si è seccata come un osso\Ci prendiamo cura della nostra gente? >>)
E’ solo la prima pietra di un mosaico perfetto che sarà composto da 33 gemme, una maratona di puro rock ‘n’ roll, folk e gospel, che sfiorerà le 4 ore dall’intesità inaudita! Un record, un atto di passione fra Bruce e la sua gente che ha origine in quel folle amore a prima vista con l’Italia, proprio in questo luogo, il 21 giugno del 1985.
Seguono “Wreckin Ball” , titolo mai così azzeccato: quella palla demolitrice simboleggia la più totale mancanza di valori, che come una sfera d’acciaio sta abbattendo la nostra civiltà.
Badlands è il classico d’oltre trent’anni: il suo ritornello fa saltare sui gradini anche il più algido dei cuori.
E’ il momento dell’hard folk irlandese di “Death to my hometown” .
“My city of ruins” è la prima ballad e con il suo lento vento prosegue la scia emotiva di coscienze che immediatamente vanno idealmente alle rovine delle città emiliane coinvolte dalle impietose e ripetute scosse sismiche.
Springsteen avverte dapprima nuovamente in italiano: << Questa è una canzone di saluti e arrivederci, per le cose che ci lasciano e le cose che rimangono per sempre >>. La dedica è chiara sin dall’inizio ma si fa più netta a metà canzone, durante il ritmico battere delle mani levate al cielo, quando il rocker improvvisa un nuovo intervento nella nostra lingua e ad uno ad uno presenta gli elementi della “Heart-stopping, pants-dropping, house-rocking, earth-quaking, booty-shaking, Viagra-taking, love-making…legendary  E Street Band! “ (la ferma cuori, cala pantaloni, rockeggiante, terremotante, scuoti-culo, consumatrice di viagra, amante…leggendaria E Street Band!)
Bruce gigioneggia: << Dov’è Patty? >> ( sua moglie, nonché corista della band) << E’ rimasta a casa con i figli, ma vi saluta tutti >>.
Le mani dell’oceano umano di spellano per diversi minuti fino a quando Bruce dona il colpo di grazia diretto ai 60 mila stomaci: << Manca qualcuno…manca qualcuno…manca qualcuno! >>. Il riferimento a Danny e a “Big Man” è chiaro e sui maxi schermi s’intravedono gli occhi in lacrime di gente nelle prime file. Uno striscione a due aste inquadrato ribadisce una verità inconfutabile: << Danny e Clarence sono qui >>. Il Boss affonda: << Posso sentirli nelle vostre voci >> e con ampi gesti ci invita a sgolarci. Lo stadio impazzisce spolmonandosi come se quel boato fosse davvero il ponte comunicativo con chi ci ha lasciato.
“Spirits in the night” e “The E Street shuffle” sono ruvide come il marmo e senza sosta.
Giunge la struggente “Jack of all trades”, pezzo che dipinge chirurgicamente lo spaccato socio-esistenziale di chi, piegato dalla pesante crisi economica globale, si reinventa come “uomo-tuttofare”. Il menestrello del New Jersey si prodiga ad introdurre le prime note con l’ennesimo toccante discorso in lingua italiana, la simpatica ed imbarazzata pronuncia riesce anche a suscitare tenerezza: << I tempi sono stati molto duri, la gente ha perso il lavoro, la casa e c’è pochissimo lavoro. So che anche qui è stato durissimo ed i recenti terremoti hanno contribuito a questa dolenza. Questa è una canzone per tutti quelli che stanno lottando >>. Migliaia di accendini si mischiano ai bagliori dei display dei cellulari accesi, pare di volteggiare privi di forza di gravità, in un firmamento notturno profondamente blu, trapuntato di polvere di stelle luminose.
Ma “the show must go on” e questa sarà anche e soprattutto una notte di speranza e celebrazione dell’esserci, nonostante tutto! Così la band infila con maestria una sequenza di puro rock ‘n’ roll “old style” al fulmicotone: “Candy's room”, “Darkness on the edge of town”, “Johnny 99”, “Out in the street”, “No surrender”, “Working on the highway” e “Shackled and drawn”, prima di prendere il definitivo decollo con “Waitin’ on sunny day”...dove per il ritornello il Boss si trasforma in “premuroso nonno” cedendo il microfono ad una bimba e per non creare disparità anche al fratellino.
Sono probabilmente questi gli atteggiamenti che fanno di lui non un persona perfetta (e ci mancherebbe altro), ma senza dubbio una persona speciale, lontana mille miglia da quegli stereotipati atteggiamenti da consumata rockstar maledetta e dai classici clichè che vedono il divo chiamare “on stage” la classica bellona di turno.
Intanto intorno a me anche i più scettici o coloro che per la prima volta vedono uno show di Springsteen (ed i loro volti spaesati prima del concerto li avevo intravisti e letti al volo) si sono ormai calati completamente nel catino ribollente di passione e mi guardano quasi a volermi dire: << Ma come ho fatto fino ad adesso a perdermi un appuntamento umano simile? >>. Il segreto di tutto sta nella semplicità: niente effetti speciali o chissà quali diavolerie scenografiche, la magia sta nella musica, diretta, senza fronzoli e nel temperamento di un uomo circondato dai suoi amici di sempre, che sa parlare “alla pancia” di chi lo ascolta.
Bruce canta e suona ogni canzone come se da essa dovesse dipendere la sua esistenza, come se davvero fosse l’ultimo istante della sua e della nostra vita. Bruce non fa musica per te, bensì con te. Ogni vibrazione, ogni fottutissima emozione secondo lui deve poter arrivare ugualmente al ragazzo in prima fila così come all’ultimo seduto al terzo anello, lontano nello spazio, ma mai nel cuore.
C’è un’istantanea che conservo preziosamente nel mio grembo d’animo e che fotografa alla perfezione cosa può arrivare a fare la musica: i ragazzi diversamente abili in carrozzina erano concentrati in una zona del prato con una sorta di pedana rialzata che consentiva loro d’osservare meglio lo show. A metà concerto erano tutti sparpagliati lungo il prato e si spingevano con le proprie mani ruotando le carrozzine su se stesse a tempo di musica, per ballare e far festa accanto a chiunque.
L’armonica a bocca di “The Promise Land” mi lascia paralizzato, ma mai quanto lo Springsteen intimo che si siede al pianoforte solo e sussurra “The Promise”: ti sembra di averlo ad un metro, con una pinta di birra doppio malto, lì in una notte in cui il mondo pare esserti crollato addosso e lui sembra capirti, dedicandoti una “perla” che ti scalda il cuore infranto e crepato come un cubetto di ghiaccio: << Beh, mi ero costruito quella Challenger da solo,ma avevo bisogno di soldi e così l’ho venduta\Vivevo con un segreto che avrei dovuto tenere per me,ma una notte mi sono ubriacato e l’ho rivelato\Per tutta la vita ho combattuto una battaglia che nessun uomo può vincere\Ogni giorno diventa sempre più difficile far vivere il sogno in cui credo\oh piccola, avevi così ragione...qualcosa muore sull’autostrada stanotte >>.
Da quel preciso istante tutti capiamo che non sarà più una serata comune, nell’aria annusiamo qualcosa che sembra un monito: qui si sta scrivendo la storia e così sarà, mentre la cute increspata fa capolino sulle braccia di ognuno di noi, durante il falsetto di “The River”. Il finale è speranzoso e profetico : “The Rising”, “Radio Nowhere”, “We are alive” e “Land of hope and dreams”.
Si spengono le luci ed i ragazzi escono per meno di 120 secondi. Ci si aspetta un paio di bis, ma nel libro del destino c’era scritto che la quarta notte al Meazza del Boss sarebbe stata qualcosa di epico e da tramandare ai posteri. I bis sono ben 10! In pratica inizia un altro concerto senza fine, ogni pezzo sembra dover chiudere ed essere l’ultimo, ma il "mostro" che è in lui sembra non aver più né la voglia né il coraggio di lasciarci e spezzare quello che sembra essere un incantesimo. Attacca il finale alla canzone che sta per nascere senza soluzione di continuità. Il solo intervello è l’ormai celebre grido: << One, two, three, four >> che intercorre fra le varie  “Rocky ground”, “Born in the U.S.A” ( questa l’hanno cantata anche i seggiolini), “Born to run”, che mi vede arrampicarmi alla trasenna in preda all’estasi più totale durante la strofa: << Un giorno ragazza, non so quando, arriveremo in quel posto dove davvero vogliamo andare e cammineremo al sole\Ma fino ad allora i vagabondi come noi sono nati per correre >>. “Cadillac ranch” e le festose “Hungry heart” e “Bobby Jean”  mettono a dura prova le nostre resistenze, ma è su “Dancing in the dark” che avviene l’ennesimo siparietto che lega in modo inimitabile il Boss al suo popolo: una ragazza mostra il suo personale cartello-richiesta: “Can I dance with Jake?” ( a proposito: vedere Jake con quel sax dorato è una stilettata al cuore, dato che è tremendamente simile allo zio sia nella carnagione che nella stazza fisica). Presto fatto: Bruce l’accontenta e la prende per mano portandola dal giovane nipote del compianto Clarence, impegnato in un poderoso assolo di sax, la fortunata si scatena al suo fianco mentre invece “Il Capo” balla con un ragazzino anche lui scelto a casaccio fra le prime file, poi Springsteen, da perfetto show man, si finge geloso e ottiene l’effetto d’essere travolto ed abbracciato dalla giovane ballerina che l’abbraccia e lo riempie di baci fra lo stupore generale. Un vero inno alla gioia! La mezzanotte è abbondantemente scoccata, ma Bruce non è Cenerentola e neppure vuole saperne di togliere la corrente, si va avanti ad oltranza! E’ il turno di “Tenth avenue freeze-out”, arcaica canzone il cui testo narra in maniera leggendaria l’incontro avvenuto fra Bruce e Clarence.
Sulla strofa: << Quando le cose cambiarono in periferia e Big Man si unì alla band >>. La musica si blocca come un giradischi impallato e con essa anche il corpo del Boss sembra assumere la posa plastica di uno spaventapasseri. Sul maxi-schermo centrale scorrono le immagini di 40 anni d’amicizia fraterna che ha legato i due sin dai tempi difficili ed assurdi in cui negli U.s.a gli uomini di colore non potevano salire sugli stessi autobus dei bianchi. La folla grida ripetutamente il nome di “Big Man” mentre Bruce pone il microfono nella nostra direzione, come a volerci invitare nuovamente a spingere sulle nostre corde vocali per fargli sentire in nostro affetto ovunque egli ora sia.
L’ultimo fermo immagine è un fotogramma mostra gli occhi di Clemons. Le mie pupille invece le ho nascoste dietro alla mia macchina fotografica, per il pudore di farmi vedere con gli occhi gonfi al punto d’aver inzuppato totalmente le lenti a contatto, con risultato di non vedere niditamente più nulla.
Bruce finge di non avere più fiato, si sdraia per terra dicendo: << Stop, please >>, a quel punto è “Miami” Little Steven che entra in gioco comicamente, bagnando un'enorme spugna d’acqua e gavettonando il suo condottiero che prontamente si rimette in piedi e come Clark Klent si tramuta in Superman e sfodera generosamente altre due songs: “Glory days ” e l’orgasmo finale di “Twist and shout”. L’ultimo riverbero rintocca a mezza notte e venti: 3 ore e 47 minuti dopo il primo vagito! Il secondo concerto più lungo ed inteso di tutti i tempi! (il primo appartiene anch’esso a lui, ma risale ad un concerto del 1980 al Nassau Coliseum, non certo all’odierna età di 62 primavere).
Ci si guarda increduli, idealmente ci sia abbraccia tutti quanti attorno a lui ed ai suoi “fratelli di sangue”. Bruce è commosso,trattiene a stento l’emozione e ha l’aria di chi sa che se non volta le spalle adesso non sarà più in grado di farlo. Si congeda con un: <<Arrivederci Milano >>, dopo che qualche manciata di minuti prima aveva ammesso con toni tutt’altro che ruffiani o di circostanza: << Questo è un posto speciale per noi, siete i numeri uno! >>.
Qualcuno non se la sente di abbandonare il campo di battaglia, qualcun altro teme che quel suo congedarsi con quelle palpebre tremanti ed in bilico nel trattenere i lucciconi dopo il “concerto della vita”, sia stato una sorta di tacito addio a questo stadio ed a questo tipo di tour.
Io non so cosa dire né cosa pensare. Preferisco concentrarmi sull’adesso e godere del sole che quest’uomo è stato in grado di portare nelle stanze più fredde e buie del mio intimo, laddove non spirava soffio vitale da tempo e la parola futuro era sepolta sotto strati di polvere e ragnatele. Una chitarra giace al mio fianco e sembra volermi invitare a ballare con lei.
La bellezza salverà il mondo, ne sono certo...oggi più di ieri.

 - ALESSANDRO  DE VECCHI -