Eccoci: è arrivato quel periodo dell’anno che spesso divide
le persone in due categorie nette: c’è chi ama questo “clima festivo” e chi lo
detesta o lo ritiene eccessivamente retorico e zuccheroso. Vi è chi si
mimetizza fra mangiate, pacchetti, addobbi e luci e chi invece (magari anche
per la mancanza di qualche familiare venuto a mancare) rifugge volentieri da
una sovraesposizione spesso forzata di filantropia incrostata da buonismo.
Non credo di appartenere a nessuna delle due sopracitate
categorie: semplicemente (nel limite delle mie capacità umane) vivo moralmente ogni
giorno come se fosse un giorno importante…fondamentale.
Settimana scorsa ho scelto deliberatamente di passeggiare un
po’ in solitaria per le vie del centro della mia cittadina ed osservare tutto
ciò che i miei sensi potessero catturare. Spesso mi sono fermato ed ho fatto mentali
radiografie umane: persone in preda all’ansia del regalo, una corsa contro il
tempo e contro la crisi che morde e dopo 5 lunghi estenuanti anni non accenna a
diminuire.
Sguardi tesi, bulbi oculari al limite dell’apertura
antropomorfa. Fiati corti. Andature spedite e nervose. Tacchi ritmati sui
marciapiedi. Padiglioni auricolari sfiancati da canzoncine gettate in faccia da
100 watt buoni per cassa.
Ai margini di questo circo colorato ho scovato un uomo
anziano seduto su un gradino. Una fisarmonica tra le mani e guanti con le
dita tagliate a metà per donare un po’ di tepore agli arti, ma al contempo
permettergli di suonare.
Da quello strumento fuoriusciva una melodia che tanto
ricordava la Parigi dei pittori e degli artisti di strada. Barba canuta,
sguardo fiero e dignità da vendere.
Il piattino delle monete era però vuoto e la gente spesso lo
ribaltava distrattamente coi piedi.
L’uomo interrompeva il musicare di tanto in tanto: sembrava voler
osservare, voler capire cosa spingesse tutta quella folla a non assaporare ciò
che già ha.
Sono passato diverse volte, avanti ed indietro, in quel vicolo
stretto per guardare quell’anziano musicista, non so spiegare il perché …forse
ne ero a modo mio affascinato. O
probabilmente poiché ho sempre creduto
che siano i cosiddetti “ultimi” a darci le più grandi lezioni, lontani dai
riflettori, dalle luminarie dorate e dal pettegolezzo mondano.
Avevo in tasca due monete, mi sono curvato: le ho posate nel
piattino ed il tintinnio si è per un istante miscelato all'eco della fisarmonica ferma.
Mentre mi riportavo in posizione eretta i nostri sguardi si
sono incrociati: l’anziano aveva cessato la melodia, mi ha guardato dritto negli
occhi quasi scavando dentro con l’intenzione di leggere ciò che nascondono. Le
sue mani si sono giunte all’altezza del cuore in un gesto di saluto e
ringraziamento. Nel vicolo è risuonata solo la sua voce: consumata, baritona,
profonda. Una frase ha colmato il silenzio musicandolo: “Grazie. Il cielo ti
benedica. Buona vita”.
Cosa ricorderò di queste feste? Qual’è il regalo più
prezioso? Non ho dubbi: è ciò che ho ricevuto da quell’uomo di cui non conosco
neppure il nome.
Buona vita a tutti.
Buona vita a tutti.
ALESSANDRO DE VECCHI