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martedì 28 giugno 2011

Dieci passi ed oltre...


Metti un giorno a cena dai tuoi. Gironzoli con “passo ciondolante” in quella che fino a qualche anno fa era la tua cameretta. Osservi ogni soprammobile, scruti le pareti coi poster rimasti lì attaccati: esattamente come li avevi lasciati qualche anno prima, quando ancora in quel bunker dall’aspetto così rassicurante ed intriso di ricordi, ci abitavi.
La voce di tuo padre ti richiama in cucina: << A tavola! È pronto! >>.
Ti pare di fare un piccolo tuffo indietro nel passato, quel poco che basta per tornare a sorridere teneramente…poiché inconsciamente sai bene che il tempo non si può fermare e probabilmente è giusto e meglio che sia così. Cosa sarebbe il nostro esistere se la meraviglia di farsi sorprendere dalla vita non avesse un ruolo da protagonista? Cosa diverrebbe senza i suoi continui cambiamenti: a volte sfacciatamente gioiosi, altre volte invece dannatamente taglienti?
Niente macchine del tempo dunque: << Qui non è Hollywood >> direbbero i Negrita, e ne avrebbero ben donde.
Qualche settimana fa, a tal proposito, stavo lavorando al mio nuovo libro di racconti e mi sono ritrovato a scrivere il seguente “adagio” all’interno di un dialogo: << La quasi totalità di ciò che ci circonda è utile per chi sa cogliere ogni evento come un’opportunità di crescita. Di inutile v’è solo la stoltezza di chi usa la violenza anziché la forza della ragione. L’aridità di chi ha la ricchezza emotiva di un posacenere. La noncuranza di chi è nato con le ali, ma preferisce chinar la testa sotto la sabbia >>.
Poco fa l’ho riletta ed ho compreso una cosa: forse ho iniziato a fare i primi passi buoni come “apprendista del mestire di vivere”… e tali orme mi raccontano di come, in questo percorso privo di bussole e stelle polari, l’insegnante migliore sia proprio la pratica.
A proposito di passi ed andatura: quella sera a cena dai miei mi sono ritrovato a riflettere sul significato del vocabolo “avanzare”.
Il merito di queste bizzarre riflessioni lo devo a mia madre, spesso decisamente loquace.
Mentre io silenziosamente portavo la forchetta alla mia bocca, lei ha iniziato a raccontarmi un aneddoto che mi riguarda. Dice di averlo in qualche modo incanalato nei suoi pensieri dopo aver visto una fotografia che mi ritraeva in tenera età.
Ebbene, col suo solito piglio, in quel frangente ha iniziato a raccontarmi di come ho imparato ad andare in bici. << Tuo padre ti tolse una rotella alla volta per insegnarti gradualmente a condurre la bici con sicurezza >>. Così ha iniziato a conversare, mentre io, versandomi del vino, l’ascoltavo incuriosito.
<< Il giorno in cui ti ha levato anche la seconda rotella, avevi molta ansia…chiedevi al papà di seguirti e tenere la sella con le mani. Il babbo ti rassicurava dicendoti che era dietro di te e ti stava sostenendo. In realtà tu, senza saperlo, stavi già guidando la bici da solo! Ma eri tranquillo perché sentivi la voce di tuo padre provenire da dietro ed immaginavi la sue manone pronte a afferrarti in caso di 'mancato decollo' >>.
Questo piccolo ed apparentemente banale ricordo, mi ha illuminato la giornata. Suonerà bizzarro, forse anche un poco singolare, ma ora posso dire di aver davvero capito cosa significhi “avanzare”.
Quella minuscola bicicletta in verità era una metafora, un'allegoria del nostro quotidiano “farci strada”. Per poter stare in equilibrio occorre pedalare, sempre. Le rotelle mancanti e l’ansia le ho ritrovate in ogni altra occasione, in ogni “notte che precedeva un esame”... e la commissione giudicante si chiamava “futuro”.
Oggi sono qui: la segnaletica non esiste. Non troveremo mai un cartello che ci indichi qual è la via buona.  Spesso avremo a che fare con sentieri scoscesi e dolori ai tendini, a forza d'alzarsi sui pedali per affrontare le salite più ripide o i tornanti più erti.
La vetta non è mai visibile ad occhio nudo. A volte ho come l’impressione che inoltrandomi fiducioso, essa dispettosamente diventi inafferrabile, come un'utopia. Ma in fondo è bello che sia così.
Eduardo Galeano mi ha insegnato che l’utopia è come l’orizzonte: <<Cammini due passi e si allontana di due passi. Cammini dieci passi e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile ed allora a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare >>.
Dimenticavo: buon viaggio a tutti!

- ALESSANDRO  DE  VECCHI -

lunedì 20 giugno 2011

GRAZIE DI TUTTO "BIG MAN" ...


Quanto sarebbe bello scrivere per altre ragioni oggi. Magari, perché no, ritrovarmi a raccontare la mia opinione riguardante una nuova scoperta scientifica che batta 2 a 0 piaghe come tumori o ictus.
Ictus: che brutto vocabolo eh? Solo il pronunciarlo mette paura. Proprio questo criminale, sabato scorso, si è portato via un omone apparentemente invincibile: Clarence Clemons.
Un nome che non avrebbe bisogno di presentazioni, dato che la sua fama lo precede.
E così un altro pezzo delle E-Street Band di Bruce Springsteen ci lascia.
Dopo la scomparsa di Danny Federici (un fottutissimo melanoma ce l’ha strappato a soli 58 anni), ora è la volta di Clarence, detto "Big Man" (e non solo per la stazza fisica).
Non amo la retorica e non voglio inciamparci. Ogni parola in questi casi mi sembra superflua (forse non appena troverò un po’ più di lucidità riuscirò anche io a scrivere o dire qualche cosa di “sensato”). In questo momento voglio solo ricordare quel suo saluto a Torino (il 21 luglio 2009, il più bel concerto della mia vita).
Fosti il primo a salire sul palco, dolorante per le varie operazioni alle ginocchia e spina dorsale, ma niente da fare, ce l’avevi promesso: << Andrò avanti a suonare finchè avrò fiato nella mia bocca e forza nella mie mani >>.  
Quella sera ci hai spiati tutti, uno per uno, col sorriso sornione di chi ci pensava: << Vi vedo, siete qui per noi e siamo qui per voi, per fonderci come fratelli di sangue>>.
Ebbene sì: liquefarsi in un impasto di rock 'n’ roll, sudore, grida, pianti , braccia al cielo e i “fanculo” lanciati al pudore… con l’istinto irrefrenabile di liberarsi nella voglia d’essere pienamente se stessi; anche davanti a 40 mila anime.
Un rito da consumare con bramoso piacere, mai fine a sé stesso. Una celebrazione che è durata quattro decenni e suggellava un patto (fatto e mai tradito) tra qualcosa più di una band ed il suo popolo.
Inutile descriverlo: << parlare di musica è come parlare di amore o sesso, meglio una dimostrazione pratica >>, diceva Bruce.
Ma forse, in questo caso, non si tratta neppure di semplice musica, si allude a qualcosa di più profondo e viscerale: un legame ancestrale che il “tuo ed il nostro boss” ha ben descritto nella struggente “Blood Brothers”.
”Big Man”,  idealmente per me sei già andato a prenderti il tuo posto accanto a “Faber”. Vi ritroverò un giorno, seduti sulla stessa panchina. Tu col tuo sax a tracolla a regalare al tempo un assolo come quello di “Jungleland”. L’altro a cantare, con una sigaretta fra le dita e la chitarra in grembo; mentre racconta d’utopia e sana anarchica libertà.
In verità siete così diversi, ma il mio inconscio vi contempla in qualche modo simili, in qualche sfumatura, tra il latteo e l’ebano delle vostre carnagioni.
Che altro dire? Non reggo gli addii, mi mettono troppa angoscia, perciò preferisco dirti: << Ciao, vecchia roccia! >>.  Nel frattempo non fare troppo il bravo!.
A San Siro, tre anni fa, vi multarono poiché avevate “sforato” di 22 minuti l’orario imposto dalle autorità benpensanti. Secondo “lor signori” la “vostra colpa” fu quella di voler donare altra gioia a chi aveva "rotto il porcellino dei risparmi" pur di far festa insieme a voi. Dissero che il “rumore” era reato a quell’ora. Stoltezza di chi non conosce il potere fatato della MUSICA e lo confonde col FRACASSO VUOTO, proveniente dai palazzi del potere.
Io non so cosa vi sia dopo questa vita, ma se per caso il paradiso di cui spesso sento chiacchierare dovesse davvero esistere, beh allora credo che sarà un luogo dove il volume alto non sarà bandito e si potrà ballare sino all’alba.
Dimenticavo: grazie di tutto Fratello! Il “boss” te lo saluterò io alla prima occasione buona! È stato un privilegio ascoltarti ed è stato altrettanto meglio essersi lasciarti (temporaneamente), che non essersi mai incontrati.

-ALESSANDRO DE VECCHI -