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venerdì 8 luglio 2016

1000 volte la prima volta (come ti racconto un concerto del Boss)

Sono solito scrivere piccole storie, racconti, spaccati di vita. Mi diverte, mi fa sentire vivo,  mi da la possibilità di donare un pezzetto di me al prossimo.
Utilizzo spesso personaggi presi in prestito alla fantasia.  Si muovono su di un tappeto che sa di concreto, sino a miscelarsi al punto di non distinguere più la realtà dall’immaginazione.
Ciò di cui vi voglio raccontare oggi è un fatto veritiero, successo esattamente la notte del 5 Luglio 2016.
Nessuna concessione al fiabesco, al romanzato; semplicemente perché questa volta la quotidianità ha superato  l’inventiva.
Sto parlando di Bruce Springsteen e della sua seconda data consecutiva (la settima in totale) nel suo regno: lo stadio Meazza di Milano, il castello dove si consuma ogni volta il rito amoroso fra il musicista e le migliaia di ventricoli pulsanti accorsi per lui. Una storia d’amore? Sì, di quelle più pure ed intense. Una relazione iniziata il solstizio di una torrida estate del 1985 e proseguita senza sosta sino ad oggi, in un patto di sangue mai tradito.
Quanto a me ed al mio vivere il concerto, cosa posso dire? Incomincio chiedendovi di immaginare un ragazzo che “rompe” il suo porcellino salvadanaio il giorno in cui viene a conoscenza del fatto che il Boss farà un nuovo tour in Italia: stupore, ansia, felicità , curiosità. Un pastone di sentimenti tutti sbriciolati a colazione in men che non si dica.
Poi la corsa ad accaparrarsi i biglietti! Il calendario ci informa che il 3 Luglio sarà una domenica. Wow! Giornata ideale, viene da pensare.
Conto alla rovescia, pronto con le dita sulla tastiera come un centometrista chinato sui blocchi ad attendere il colpo di pistola dello starter.
Brutta batosta! Niente da fare … tickets bruciati nel tempo di una stella cadente che attraversa il cielo nella notte di San Lorenzo! Tutto sfumato dunque? No, nient’affatto: una vera fiaba metropolitana non può certo terminare così.
Si replica il 5 Luglio, Martedì. C’è sete di emozioni, le gole dei fans italiani sono a secco da tre lunghi anni e il menestrello del New Jersey non ha alcuna voglia di tradire il suo fedele popolo.
Martedì, giorno lavorativo, porca miseria! Non sarà un po’ troppo complicato cercare di bissare uno show  andato in scena sole poche ore prima? La risposta è no. Quando si tratta di questo sciamano del rock ‘n roll il termine “impossibile” deve essere bandito dal vocabolario.
Si riparte: tutti fare ginnastica con le dita, la caccia al prezioso tagliando è ricominciata.
Questa volta va tutto come deve: una bustina lampeggiante sul display del computer mi informa che potrò ritirare i biglietti il giorno stesso, alle casse. Bisogna solo attendere, attendere un esodo biblico: gente che verrà da ogni parte, qualcuno (come il sottoscritto) giocherà in casa, altri arriveranno da ogni parte delle penisola. Dal meridione, dal nord-est o persino dalla Croazia.
Incomincio a pensare che il vocabolo “concerto” sia un tantino riduttivo, quello che sta per andare in scena è un collettivo bagno spirituale, un’immersione in una dimensione che ogni volta si conferma come acqua corrente,  fedele e continua, eppure mai uguale a se stessa.
Non è certo il primo show del Boss al quale assisterò, eppure la cute anserina che fa comparsa sotto  peli delle mie braccia sembra voler dire: “1000 volte la prima volta”.
Il rombo della mia Yaris pare voler imitare il ruggito delle chitarre di Nils e Steve, ma per quelle c’è ancora tempo. Non c’è tempo invece per i 34 gradi impietosi che il termometro dell’auto mi sbatte in faccia.
Cd pronto: è “The River”, c’è bisogno di un ripasso delle canzoni che probabilmente ci abbracceranno questa notte. La copertina è datata, l’album timbra i suoni del suo tempo (correva l’anno 1980), ma questo tour è qui ed ora ed è jolly per far festa e fante messaggero di riflessioni.
30 minuti di viaggio. Il tempo di assaggiare schegge di blues, bocconi rock ed un contorno di folk. Ho sete, bevo come un dannato, mentre la mia compagna, accanto a me canta “Hungry heart” come fosse davvero lei la protagonista di quel pezzo ed avesse un cuore affamato che reclama d’essere sfamato alla svelta.
Parcheggiamo a Parco Trenno. Non ci azzardiamo a spingerci in zona stadio: il rischio è di imbottigliarci e sento proprio che il sapore che ne trarremmo sarebbe al massimo quello di un mediocre Tavernello.
Proseguiamo a piedi, sotto il sole cocente del primo pomeriggio. La maglietta mi si appiccica alle spalle come un gavettone caldo e sporco.
La chitarra disegnata e il nome di Bruce sembrano afflosciarsi sulla mia pelle. Non c’è tempo per lagnarsi. Mi levo la maglietta e la infilo nello zaino. Farà compagnia a succhi di frutta e panini. Avvolgo il mio cranio rasato dentro ad un bandana nero che in parte mi protegge, in parte mi da l’aspetto di un pirata all’arrembaggio. Tre chilometri di marcia spediti, vediamo il profilo di San Siro: ci siamo! Ecco il tempio!
E’ arrivato il momento di ritirare la chiave d’ingresso e poi su per i tornelli, fino a salire sull’anello verde  e prender posto.
Sono le 3 e mezza, mancano ore. Il Pit sul prato è già pieno, idranti rinfrescano i ragazzi laggiù, accanto al palco del “capo”.
Monica fa amicizia con i “vicini” di gradinata, io mi precipito in bagno. Odori nauseabondi, scritte fatte a spray, chiacchiericcio del bar accanto: sembra  il quadro di un getto, ma non lo è…e gli schizzinosi li lasciamo fare ad altri.
Parlo con gli steward, cammino nervosamente avanti e indietro. Cerco di fregare il tempo, che però sembra essere un bel po’ più adulto e scalfato di me.  Attendo le 20, lontane come le stelle.
Esce il ragazzo del soundcheck: un tuono pizzicato sulle sei corde si fa spazio fra le chiacchiere della gente. Poi un boato, mani che battono ritmicamente come a preannunciare una messa salvifica.
Le gradinate si stanno riempiendo e ciò che vedo ha l’aspetto di una pentola a pressione che sta per essere colmata sino all’ultimo centimetro quadrato.
Accanto a me si scommette sulla durata dello spettacolo:  i concerti del capo sono maratone, lo sappiamo tutti, così come sappiamo che forse saremo più stremati noi di lui e ancora una volta avrà vinto il “vecchietto”.
67 anni a Settembre ed il sorriso di chi si diverte ogni volta come chi ha capito che ciò che sta facendo potrebbe  essere l’ultimo momento di gioia da consumare senza pensare alle scadenze.
Una frase mi ritorna all’orecchio fra le mille chiacchiere che sento dietro di me: << Il mondo musicale si divide in due. C’è chi ama Springsteen e chi ancora non l’ha visto dal vivo >>.
Quante volte l’ho sentito questo adagio? Non tengo più il conto, ma so per esperienza diretta che è vero. Nessun fanatismo, solo il semplice prendere atto di una incontrovertibile constatazione.
Il palco è scarno, essenziale. Poche luci, due maxi schermi, niente effetti speciali. “L’effetto speciale è la musica e il nostro essere insieme” – questo replica sempre Bruce.
La terra trema, non è un terremoto: la E-street band entra come sempre sulle note di “C’era una volta il west” di Morricone. Eccoli: Max, Susy, Gary, Charlie,Roy,  Nils, Jack.. poi il tono delle urla si impenna: è entrato “Little Steven”, fa un inchino, ride. Sornione. E’ solo l’antipasto: i decibel schizzano: “Bruce! Bruce! Bruce!” il coro si leva alto spazzando via l’ultima nuvola d’afa. Due angeli aleggiano intorno al palco, hanno l’aspetto di Danny e Clarence. Dicono che non siano più tra noi da anni, ma io stasera li vedo. Non hanno piume né fronzoli retorici. Sono in ogni nota del pianoforte, in ogni alito di sax.
E’ la seconda redenzione musicale in tre giorni. Domenica ne ha data una durata 3 ore e 45 minuti, ora si cancella tutto. << Quando suono non posso dare il 100% una sera e limitarmi la sera successiva,tutti devono godere di una gioia condivisa, dal ragazzo in prima fila al tizio lontano sull’ultimo gradino >>. Questo è l’elisir dell’eterna giovinezza del “capo”.
<< One, two, three, four >>, il ruggito ci fa capire sin da subito che sarà una serata di sudore, muscoli e anima. Parte una “Meet me in the city” grintosa. La voce è sicura, la band gira come un Harley lucidata a puntino. Si intuisce sin dalla prima pennata che il ragazzo è voglioso di incorniciare il suo settimo abbraccio con questa famiglia. Così come si può intuire che la scaletta di questa sera sarà un ping pong di sorprese e cartelloni di richieste pescati fra mani strette.
Nessuna pausa fra un pezzo e l’altro, si decolla. Punto e basta. “Prove it all night”, “Roulette”, “The ties that bind”, “Sherry Darling”, inanellate come big bang consecutivi.
Poi il gospel di “Spirit in the night”, i primi due cartelloni di richieste ci fanno piovere una chicca d’annata “Rosalita” ed una coinvolgente “Fire”. Inaspettata come la neve in estate arriva “Something in the night”.
Si salta, si balla, c’è un party a cui sono stati invitati sessanta mila amici, era inevitabile con “ Hungry heart”, i cuori sono davvero affamati.
Il pubblico si scatena nei cori e Bruce gigioneggia nel ritornello di “Out in the street” (“Quando sono fuori in strada cammino come mi pare. Quando sono fuori in strada, parlo come mi pare” ). Si respira libertà e la voglia di celebrarla.
La folla richiede “Mary’s Place”, accontentati! Poi è il turno del folk di “Death to my hometown”.
Le luci divengono violette, l’armonica a bocca incanta ed ipnotizza 120 mila orecchie. “The river” spezza definitivamente le difese ed il pudore anche al più cuore più duro ( “Vengo dal fondo della valle dove, signore, quando sei giovane ti fanno crescere per farti fare Il lavoro che faceva tuo padre. Io e Mary ci incontrammo al liceo, quando lei aveva solo diciassette anni. Ci allontanammo in macchina da questa valle verso posti dove i campi sono verdi. Andammo giù al fiume e nel fiume ci tuffammo” ).
Lo stadio intero al buio, luci di display e altre fonti luminose sembrano uno sciame ondulante di lucciole sulla riva del fiume. Lacrime copiose di una coppia davanti a me: non c’è vergogna, non c’è peccato, c’è solo amore questa notte.
Roy al piano accenna “Racing in the street”, San Siro è ammutolito in religioso laico silenzio (“Alcuni uomini rinunciano semplicemente a vivere e iniziano a morire lentamente, un poco alla volta. Altri rientrano a casa dal lavoro e si rinfrescano e poi vanno a gareggiare in strada”.)
Incudine e martello con “Cadillac Ranch”, “The Promised Land”, “ I'm A Rocker” ,” Lonesome Day “, Darlington County e la richiesta “The Price You Pay”, poi arriva il ciclone di “Because the night” (pezzo che Springsteen donò a Patty Smith). Lo stadio trema, le mie vene pure.
“Streets of fire”, “Badland” e “The rising” mettono a dura prova la tenuta delle fondamenta dell'impianto nonché le mie ginocchia.
Siamo all’apice del pathos, la band ha studiato tutto a puntino, sa che la scintilla è scoccata e l’incendio è alla porte. Puntuale il fuoco si manifesta sul riff che annuncia “Born to run”. Nessun pompiere riuscirà a domare queste fiamme e quindi la rockabilly “Seven nights to rock” è un omaggio alla settima abbuffata  in questo luogo, ormai beatificato agli dei del rock.
“Dancing in the dark” è inevitabile come  la luce del sole. Bruce, come da tradizione, chiama a ballare sul palco una ragazza. Si tratta di una giovane che quella sera darà l’addio al nubilato. Quale occasione migliore di festeggiare insieme al suo eroe? Un abbraccio scocca fra i due, lei sembra non voler più lasciare andare il nostro, che da consumato frontman afferra per le mani qualcun altro da far ballare con Susy (la violinista), e Jake (il sassofonista). Ma le sorprese non sono terminate, c’è spazio anche per Leonardo (di Bologna), un ragazzino che il Boss ha conosciuto anni fa e che ha suonato la chitarra con lui. Così farà anche questa sera, fra lo stupore fanciullesco che gli si legge negli occhi e la gioia collettiva di un pubblico innamorato dell’umana simpatia di quest’uomo. Sul palco c’è spazio per tutti, si balla e la pedana è ormai affollata:  celebri o non, non importa proprio nulla. E’ festa piena per chiunque. E’ adrenalina, gioia a piene mani e senza smoking.
“Tenth Avenue Freeze-Out” è l’occasione per ricordare Clarence, “the Big Man”. Alla strofa “ Quando le cose cambiarono e ‘Big Man’ si unì alla band”, i maxischermi ci mostrano istantanee del totem umano color ebano. I suoi occhi forano lo schermo, il suo sax scintilla e ricorda come la vita scorre. Oggi sul palco quello strumento è nella mani di suo nipote. Capelli increspati, stessa stazza, fiato e cuore da vendere.
Poi le foto ci ricordano che è il momento di ricordare anche Danny (detto “Scooter”), storico tastierista che ha lasciato questa pelle per un fottuto melanoma.
Commozione a catinelle. Si prosegue, “The show must go on” cantava Freddy Mercury.
“Shout” convince anche il più compassato ad alzarsi e scuotere le chiappe. E “Bobby Jean” irrompe con il fragore del suo sax finale, come un pianto liberatorio.
Le luci si spengono. Sembra tutto finito. No, manca ancora qualche minuto alla mezzanotte. “Cenerentolo“ torna sul palco da solo. Chitarra acustica ed armonica a bocca. Un versione intima di “This hard Land” è il suo settimo saluto alla sua gente. Oltre 7 ore di spettacolo in due serate. Centoventimila ugole hanno unito la propria voce in un unico vento sonoro.
Due sere prima aveva ringraziato “il miglior pubblico del mondo”, questa sera ribadisce il concetto per chi ancora non avesse aperto le orecchie ed il cuore. Prima annuncia con un italiano che intenerisce: “ Grazie per queste due serate meravigliose”, poi affonda sino a penetrare l’anima: “ Milano, Italia, la E-Street band vi ama.”
Alza la chitarra al cielo, sorride. Capisce di essere corrisposto in tutto quell’amore. Quando arriva questo momento entrambe le parti (lui ed il pubblico) fanno fatica a staccarsi dall’abbraccio. Si ha quasi il timore di rompere un incantesimo. Una parola in più non serve, una parola in meno neppure.
Si gira di spalle, la sua mano saluta. I miei (quasi) 36 denti fanno mostra di tutta la felicità che non posso più contenere.

Una domanda mi seguirà ancora a lungo dopo questa notte: “ Quanta felicità siamo in grado di sopportare “?

 -  ALESSANDRO DE VECCHI -