Marzo, temperature gradevoli. Il cruscotto della mia auto
mi mostra per la prima volta la cifra 20
al termometro digitale… il tutto mentre l’autoradio fa il suo dovere,
innaffiando con canzoni di Springsteen, ed al contempo le gomme assaggiano un asfalto già piuttosto tiepido.
Bereguardo è alla spalle, intravedo il ponte delle barche
dallo specchietto retrovisore ed ora tutti i cartelli stradali mi annunciano
che mancano soli 11 chilometri a Pavia.
Penso all’estate, a ciò che verrà, a cosa ne sarà di
questa mia vita di qui a prossimi mesi. Non trovo risposte, progetti, auspici,
speranze e pensieri si rincorrono, ma sembrano galleggiare insicuri come un
ponte che non ha abbastanza radicamento al terreno per sostenere il traffico.
Torno al momento presente, l’unica cosa che davvero
possiedo è questo instante. Eppure se cerco di afferrarlo scopro che è già
svanito, come una farfalla che si posa sulla rete senza lasciarsi mai
catturare.
Lascio che sia: il tempo conosce meglio di me il
significato del viaggio che ogni spirito è chiamato fare in questa giostra, che
non spegne mai motori e luci.
Mi lascio stare, Alessandro smette di chiedersi perché
succede questo o quest’altro, ma soprattutto cessa di giudicare se stesso e gli
altri.
Il mio nome stesso, del resto, è frutto di una scelta che
non ho fatto io: eppure ogni giorno ho un libero arbitrio, un “capo di manovra”
su cui seminare. Posso scegliere se compatirmi e compatire o utilizzare anche
le difficoltà come sabbia per costruire i gradini su cui salire.
Scelgo la seconda opzione. Sorrido, sornione.
Il tachimetro mi avverte che sto correndo un po’ troppo:
pigio sul freno, rallento, abbasso il finestrino, respiro. Che meraviglia: sono
vivo! Lo ero anche poco fa, ma la consapevolezza mi regala questo scampolo di
paradiso, bussando al ventricolo e facendomi sentire come batte il muscolo
cardiaco.
Bum-bum, bum-bum, bum-bum.
Grazie! Questa è la parola che ripeto più spesso mentre
abbasso il volume dello stereo e mi godo il fischiettare del vento che entra dal finestrino.
Sono quasi giunto alla stazione, qui cercherò parcheggio
per poi passeggiare lungo il fiume Ticino.
Un piccione attraversa la strada, goffo, impacciato.
Sembra dolorante. Inchiodo una frenata per non investirlo e lui lentamente
attraversa la carreggiata, con il suo incedere lento.
Lo osservo: non può volare! E’ ferito alle ali e
costretto a camminare lentamente rischiando la pellaccia.
Sembra fare lo slalom fra un’automobile e l’altra. Una
roulette russa che anche questa volta è stata fortunata.
Mi volto, lo guardo per l’ultima volta, sono quasi
convinto che stia per sorridermi e ringraziarmi di averlo rispettato.
Lo ringrazio anche io, sono certo di aver sentito il suo
GRAZIE mille e più volte, in questa vita… e forse lo farà anche nella prossima.
Quel piccione viaggiatore probabilmente altro non era che
il mio riflesso, il riflesso di chi anche se al momento non può volare, non
rinuncia all’idea di tornare a farlo. Nell’immobile quiete che tutto riflette
ci sono anche i passi compiuti e quelli da compiere.
ALESSANDRO DE VECCHI