Sono solito scrivere piccole storie, racconti, spaccati
di vita. Mi diverte, mi fa sentire vivo,
mi da la possibilità di donare un pezzetto di me al prossimo.
Utilizzo spesso personaggi presi in prestito alla fantasia.
Si muovono su di un tappeto che sa di
concreto, sino a miscelarsi al punto di non distinguere più la realtà
dall’immaginazione.
Ciò di cui vi voglio raccontare oggi è un fatto
veritiero, successo esattamente la notte del 5 Luglio 2016.
Nessuna concessione al fiabesco, al romanzato;
semplicemente perché questa volta la quotidianità ha superato l’inventiva.
Sto parlando di Bruce Springsteen e della sua seconda data consecutiva (la settima in totale) nel suo regno: lo stadio Meazza di Milano, il castello dove si consuma
ogni volta il rito amoroso fra il musicista e le migliaia di ventricoli
pulsanti accorsi per lui. Una storia d’amore? Sì, di quelle più pure ed
intense. Una relazione iniziata il solstizio di una torrida estate del 1985 e
proseguita senza sosta sino ad oggi, in un patto di sangue mai tradito.
Quanto a me ed al mio vivere il concerto, cosa posso
dire? Incomincio chiedendovi di immaginare un ragazzo che “rompe” il suo
porcellino salvadanaio il giorno in cui viene a conoscenza del fatto che il
Boss farà un nuovo tour in Italia: stupore, ansia, felicità , curiosità. Un
pastone di sentimenti tutti sbriciolati a colazione in men che non si dica.
Poi la corsa ad accaparrarsi i biglietti! Il calendario
ci informa che il 3 Luglio sarà una domenica. Wow! Giornata ideale, viene da
pensare.
Conto alla rovescia, pronto con le dita sulla tastiera
come un centometrista chinato sui blocchi ad attendere il colpo di pistola
dello starter.
Brutta batosta! Niente da fare … tickets bruciati nel
tempo di una stella cadente che attraversa il cielo nella notte di San Lorenzo!
Tutto sfumato dunque? No, nient’affatto: una vera fiaba metropolitana non può
certo terminare così.
Si replica il 5 Luglio, Martedì. C’è sete di emozioni, le
gole dei fans italiani sono a secco da tre lunghi anni e il menestrello del New
Jersey non ha alcuna voglia di tradire il suo fedele popolo.
Martedì, giorno lavorativo, porca miseria! Non sarà un
po’ troppo complicato cercare di bissare uno show andato in scena sole poche ore prima? La
risposta è no. Quando si tratta di questo sciamano del rock ‘n roll il termine
“impossibile” deve essere bandito dal vocabolario.
Si riparte: tutti fare ginnastica con le dita, la caccia
al prezioso tagliando è ricominciata.
Questa volta va tutto come deve: una bustina lampeggiante
sul display del computer mi informa che potrò ritirare i biglietti il giorno
stesso, alle casse. Bisogna solo attendere, attendere un esodo biblico: gente
che verrà da ogni parte, qualcuno (come il sottoscritto) giocherà in casa,
altri arriveranno da ogni parte delle penisola. Dal meridione, dal nord-est o
persino dalla Croazia.
Incomincio a pensare che il vocabolo “concerto” sia un
tantino riduttivo, quello che sta per andare in scena è un collettivo bagno
spirituale, un’immersione in una dimensione che ogni volta si conferma come
acqua corrente, fedele e continua, eppure
mai uguale a se stessa.
Non è certo il primo show del Boss al quale assisterò,
eppure la cute anserina che fa comparsa sotto
peli delle mie braccia sembra voler dire: “1000 volte la prima volta”.
Il rombo della mia Yaris pare voler imitare il ruggito
delle chitarre di Nils e Steve, ma per quelle c’è ancora tempo. Non c’è tempo
invece per i 34 gradi impietosi che il termometro dell’auto mi sbatte in
faccia.
Cd pronto: è “The River”, c’è bisogno di un ripasso delle
canzoni che probabilmente ci abbracceranno questa notte. La copertina è datata,
l’album timbra i suoni del suo tempo (correva l’anno 1980), ma questo tour è
qui ed ora ed è jolly per far festa e fante messaggero di riflessioni.
30 minuti di viaggio. Il tempo di assaggiare schegge di
blues, bocconi rock ed un contorno di folk. Ho sete, bevo come un dannato,
mentre la mia compagna, accanto a me canta “Hungry heart” come fosse davvero
lei la protagonista di quel pezzo ed avesse un cuore affamato che reclama d’essere
sfamato alla svelta.
Parcheggiamo a Parco Trenno. Non ci azzardiamo a
spingerci in zona stadio: il rischio è di imbottigliarci e sento proprio che il
sapore che ne trarremmo sarebbe al massimo quello di un mediocre Tavernello.
Proseguiamo a piedi, sotto il sole cocente del primo
pomeriggio. La maglietta mi si appiccica alle spalle come un gavettone caldo e
sporco.
La chitarra disegnata e il nome di Bruce sembrano
afflosciarsi sulla mia pelle. Non c’è tempo per lagnarsi. Mi levo la maglietta
e la infilo nello zaino. Farà compagnia a succhi di frutta e panini. Avvolgo il
mio cranio rasato dentro ad un bandana nero che in parte mi protegge, in parte
mi da l’aspetto di un pirata all’arrembaggio. Tre chilometri di marcia spediti,
vediamo il profilo di San Siro: ci siamo! Ecco il tempio!
E’ arrivato il momento di ritirare la chiave d’ingresso e
poi su per i tornelli, fino a salire sull’anello verde e prender posto.
Sono le 3 e mezza, mancano ore. Il Pit sul prato è già
pieno, idranti rinfrescano i ragazzi laggiù, accanto al palco del “capo”.
Monica fa amicizia con i “vicini” di gradinata, io mi
precipito in bagno. Odori nauseabondi, scritte fatte a spray, chiacchiericcio
del bar accanto: sembra il quadro di un
getto, ma non lo è…e gli schizzinosi li lasciamo fare ad altri.
Parlo con gli steward, cammino nervosamente avanti e
indietro. Cerco di fregare il tempo, che però sembra essere un bel po’ più
adulto e scalfato di me. Attendo le 20,
lontane come le stelle.
Esce il ragazzo del soundcheck: un tuono pizzicato sulle
sei corde si fa spazio fra le chiacchiere della gente. Poi un boato, mani che
battono ritmicamente come a preannunciare una messa salvifica.
Le gradinate si stanno riempiendo e ciò che vedo ha
l’aspetto di una pentola a pressione che sta per essere colmata sino all’ultimo
centimetro quadrato.
Accanto a me si scommette sulla durata dello spettacolo: i concerti del capo sono maratone, lo
sappiamo tutti, così come sappiamo che forse saremo più stremati noi di lui e
ancora una volta avrà vinto il “vecchietto”.
67 anni a Settembre ed il sorriso di chi si diverte ogni
volta come chi ha capito che ciò che sta facendo potrebbe essere l’ultimo momento di gioia da consumare
senza pensare alle scadenze.
Una frase mi ritorna all’orecchio fra le mille
chiacchiere che sento dietro di me: << Il mondo musicale si divide in
due. C’è chi ama Springsteen e chi ancora non l’ha visto dal vivo >>.
Quante volte l’ho sentito questo adagio? Non tengo più il
conto, ma so per esperienza diretta che è vero. Nessun fanatismo, solo il
semplice prendere atto di una incontrovertibile constatazione.
Il palco è scarno, essenziale. Poche luci, due maxi
schermi, niente effetti speciali. “L’effetto speciale è la musica e il nostro
essere insieme” – questo replica sempre Bruce.
La terra trema, non è un terremoto: la E-street band
entra come sempre sulle note di “C’era una volta il west” di Morricone. Eccoli:
Max, Susy, Gary, Charlie,Roy, Nils, Jack..
poi il tono delle urla si impenna: è entrato “Little Steven”, fa un inchino,
ride. Sornione. E’ solo l’antipasto: i decibel schizzano: “Bruce! Bruce!
Bruce!” il coro si leva alto spazzando via l’ultima nuvola d’afa. Due angeli
aleggiano intorno al palco, hanno l’aspetto di Danny e Clarence. Dicono che non
siano più tra noi da anni, ma io stasera li vedo. Non hanno piume né fronzoli
retorici. Sono in ogni nota del pianoforte, in ogni alito di sax.
E’ la seconda redenzione musicale in tre giorni. Domenica
ne ha data una durata 3 ore e 45 minuti, ora si cancella tutto. << Quando
suono non posso dare il 100% una sera e limitarmi la sera successiva,tutti
devono godere di una gioia condivisa, dal ragazzo in prima fila al tizio
lontano sull’ultimo gradino >>. Questo è l’elisir dell’eterna giovinezza
del “capo”.
<< One, two, three, four >>, il ruggito ci fa
capire sin da subito che sarà una serata di sudore, muscoli e anima. Parte una “Meet
me in the city” grintosa. La voce è sicura, la band gira come un Harley lucidata
a puntino. Si intuisce sin dalla prima pennata che il ragazzo è voglioso di
incorniciare il suo settimo abbraccio con questa famiglia. Così come si può
intuire che la scaletta di questa sera sarà un ping pong di sorprese e
cartelloni di richieste pescati fra mani strette.
Nessuna pausa fra un pezzo e l’altro, si decolla. Punto e
basta. “Prove it all night”, “Roulette”, “The ties that bind”, “Sherry Darling”,
inanellate come big bang consecutivi.
Poi il gospel di “Spirit in the night”, i primi due
cartelloni di richieste ci fanno piovere una chicca d’annata “Rosalita” ed una
coinvolgente “Fire”. Inaspettata come la neve in estate arriva “Something in
the night”.
Si salta, si balla, c’è un party a cui sono stati invitati
sessanta mila amici, era inevitabile con “ Hungry heart”, i cuori sono davvero
affamati.
Il pubblico si scatena nei cori e Bruce gigioneggia nel
ritornello di “Out in the street” (“Quando sono fuori in strada cammino come mi
pare. Quando sono fuori in strada, parlo come mi pare” ). Si respira libertà e la
voglia di celebrarla.
La folla richiede “Mary’s Place”, accontentati! Poi è il
turno del folk di “Death to my hometown”.
Le luci divengono violette, l’armonica a bocca incanta ed
ipnotizza 120 mila orecchie. “The river” spezza definitivamente le difese ed il
pudore anche al più cuore più duro ( “Vengo dal fondo della valle dove,
signore, quando sei giovane ti fanno crescere per farti fare Il lavoro che
faceva tuo padre. Io e Mary ci incontrammo al liceo, quando lei aveva solo
diciassette anni. Ci allontanammo in macchina da questa valle verso posti dove
i campi sono verdi. Andammo giù al fiume e nel fiume ci tuffammo” ).
Lo stadio intero al buio, luci di display e altre fonti
luminose sembrano uno sciame ondulante di lucciole sulla riva del fiume.
Lacrime copiose di una coppia davanti a me: non c’è vergogna, non c’è peccato,
c’è solo amore questa notte.
Roy al piano accenna “Racing in the street”, San Siro è
ammutolito in religioso laico silenzio (“Alcuni uomini rinunciano semplicemente
a vivere e iniziano a morire lentamente, un poco alla volta. Altri rientrano a
casa dal lavoro e si rinfrescano e poi vanno a gareggiare in strada”.)
Incudine e martello con “Cadillac Ranch”, “The Promised
Land”, “ I'm A Rocker” ,” Lonesome Day “, Darlington County e la richiesta “The
Price You Pay”, poi arriva il ciclone di “Because the night” (pezzo che
Springsteen donò a Patty Smith). Lo stadio trema, le mie vene pure.
“Streets of fire”, “Badland” e “The rising” mettono a dura
prova la tenuta delle fondamenta dell'impianto nonché le mie ginocchia.
Siamo all’apice del pathos, la band ha studiato tutto a
puntino, sa che la scintilla è scoccata e l’incendio è alla porte. Puntuale il
fuoco si manifesta sul riff che annuncia “Born to run”. Nessun pompiere
riuscirà a domare queste fiamme e quindi la rockabilly “Seven nights to rock” è un
omaggio alla settima abbuffata in questo
luogo, ormai beatificato agli dei del rock.
“Dancing in the dark” è inevitabile come la luce del sole. Bruce, come da tradizione,
chiama a ballare sul palco una ragazza. Si tratta di una giovane che quella
sera darà l’addio al nubilato. Quale occasione migliore di festeggiare insieme
al suo eroe? Un abbraccio scocca fra i due, lei sembra non voler più lasciare
andare il nostro, che da consumato frontman afferra per le mani qualcun altro da far
ballare con Susy (la violinista), e Jake (il sassofonista). Ma le sorprese non
sono terminate, c’è spazio anche per Leonardo (di Bologna), un ragazzino che il
Boss ha conosciuto anni fa e che ha suonato la chitarra con lui. Così farà anche
questa sera, fra lo stupore fanciullesco che gli si legge negli occhi e la gioia collettiva
di un pubblico innamorato dell’umana simpatia di quest’uomo. Sul palco c’è
spazio per tutti, si balla e la pedana è ormai affollata: celebri o non, non importa proprio nulla. E’
festa piena per chiunque. E’ adrenalina, gioia a piene mani e senza smoking.
“Tenth Avenue Freeze-Out” è l’occasione per ricordare
Clarence, “the Big Man”. Alla strofa “ Quando le cose cambiarono e ‘Big Man’ si
unì alla band”, i maxischermi ci mostrano istantanee del totem umano color
ebano. I suoi occhi forano lo schermo, il suo sax scintilla e ricorda come la
vita scorre. Oggi sul palco quello strumento è nella mani di suo nipote.
Capelli increspati, stessa stazza, fiato e cuore da vendere.
Poi le foto ci ricordano che è il momento di ricordare
anche Danny (detto “Scooter”), storico tastierista che ha lasciato questa pelle
per un fottuto melanoma.
Commozione a catinelle. Si prosegue, “The show must go on”
cantava Freddy Mercury.
“Shout” convince anche il più compassato ad alzarsi e scuotere
le chiappe. E “Bobby Jean” irrompe con il fragore del suo sax finale, come un pianto
liberatorio.
Le luci si spengono. Sembra tutto finito. No, manca
ancora qualche minuto alla mezzanotte. “Cenerentolo“ torna sul palco da solo.
Chitarra acustica ed armonica a bocca. Un versione intima di “This hard Land” è
il suo settimo saluto alla sua gente. Oltre 7 ore di spettacolo in due serate. Centoventimila ugole hanno unito la propria voce in un unico vento sonoro.
Due sere prima aveva ringraziato “il miglior pubblico del
mondo”, questa sera ribadisce il concetto per chi ancora non avesse aperto le
orecchie ed il cuore. Prima annuncia con un italiano che intenerisce: “ Grazie
per queste due serate meravigliose”, poi affonda sino a penetrare l’anima: “
Milano, Italia, la E-Street band vi ama.”
Alza la chitarra al cielo, sorride. Capisce di essere
corrisposto in tutto quell’amore. Quando arriva questo momento entrambe le
parti (lui ed il pubblico) fanno fatica a staccarsi dall’abbraccio. Si ha quasi il timore di rompere un incantesimo. Una parola in più non serve, una parola in
meno neppure.
Si gira di spalle, la sua mano saluta. I miei (quasi) 36
denti fanno mostra di tutta la felicità che non posso più contenere.
Una domanda mi seguirà ancora a lungo dopo questa notte: “
Quanta felicità siamo in grado di sopportare “?
- ALESSANDRO DE VECCHI -
Sono commosso Susanna. Commosso dalle tue parole. Semplicemente grazie
RispondiEliminaChe bello !! Ho letto con interesse di questa tua esperienza e, credo, sia stato davvero fantastico partecipare. Un saluto.
RispondiEliminaGrazie ..un sincero e schietto grazie Mirtillo! Intanto mi sono unito al tuo blog ;)
EliminaBravo Alessandro, io che sono una springsteeana per amore e per lavoro, ho apprezzato molto questo tuo quadro e mi iscrivo con piacere caro " Blood brothers"
RispondiEliminaA presto , abbraccio e sempre " follow that dream"
Ma mi ero già unita...sentivo qualcosa di familiare...ahahahah
RispondiEliminaNella!! Grazie!!!! messaggi come il tuo sono incoraggianti!!
EliminaAlessandro, stupendo...grande!
RispondiElimina"...un abbraccio scocca fra i due, lei sembra non voler più lasciare andare il nostro.." e come facevo a lasciarlo andare via? Stava davvero succedendo, e io non potevo crederci! Mi hai fatto tornare a quella serata dove si è avverato un sogno...GRAZIE!
Grazie a te Angie! Grazie per esserti preso l'impegno di prestarmi il tuo tempo! Ti abbraccio
EliminaAlessandro...stupendo! Grande!
RispondiEliminaMi hai riportato a quella sera... "un abbraccio scocca fra i due, lei sembra non voler più lasciare andare il nostro" e come potevo lasciarlo andare via?
E come potevo lasciarlo andare via? cioè, stava davvero succedendo?!
Grazie per il tuo racconto!
Angie!!! sono commosso per il tuo commento!!!
EliminaAngie!!! sono commosso per il tuo commento!!!
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